PAUSA PRANZO - Parte II

Un altro accadimento, che in virtù dell’andazzo ormai consolidato, di singolare risulta, paradossalmente, avere ben poco.
R., che nonostante ci lavori di fianco in quella discoteca non ci ha mai messo piede, sabato sera, seguendo una sorta di istinto, entra. Cinque minuti, il tempo di guardarsi attorno, percepire lo scenario post-atomico che gli si prospetta di fronte, non capire, e uscire. Peccato che io fossi lì, che gli avessi spedito un sms per dirglielo, e che lui l’abbia letto solamente il mattino successivo, quando con un tot di ore di ritardo, gli è arrivato. Forse non aveva da essere.

[Tra poco svengo. Ho la pressione di una sedia.]
Sono praticamente svaccata su un tavolino di un bar.
[Sì, confermo: tra non molto svengo.]
Che palle dovere indossare una divisa per lavorare; c’era stato un periodo, in un’agenzia dove ho lavorato per diversi anni, in cui era balenata per le menti di quei filosofi illuminati del board dirigenziale (talmente dirigenziale che dopo pochi anni la società è, purtroppo, fallita) di fare delle divise, nel tentativo di imitare banalmente una società partner che forniva le camicie ai dipendenti con ricamato il proprio marchio. Americani ovviamente. Lo sdegno rivolto verso tale possibilità è stato talmente forte e sentito che non sono riuscita nemmeno ad avere una reazione. Avrei invero gradito molto fare dei bei cilindretti con le vestine aziendali ed infilarli pazientemente, tutti, uno per uno, su per il culo del mio interlocutore.

Con il caldo escono gli squinternati, o quantomeno hanno modo di manifestarsi degnamente e di ottenere la meritata attenzione: loro e soprattutto le loro turbe. Come questa donna che, con un rituale evidente pure ad uno sconosciuto, si sta apprestando a nutrirsi. Ed io che credevo di essere vorace. Credo che abbia un problema con l’alimentazione e, a guardarla bene, non solo con quella. Parlo con cognizione di causa. Sono curiosa di vedere come mangerà la pizza. Non è una pizza: è una fettona di torta! Fantastica donna: ha estratto da uno dei mille sacchetti che si porta appresso, una bottiglia di acqua da due litri ed un bicchiere di plastica da asporto, quelli con il tappo. La sua immagine è condita di fiori di plastica e di stoffa: tra i capelli, sui piedi, sulle dita. A giudicare dalla ingordigia con cui sta mangiando, e considerato quanto è magra, è altamente probabile che al semaforo o deflagri, o espella il tutto come un’idrante.

Io osservo lei, ma per la legge di Murphy qualcuno starà osservando me.

Mi risulta molto fastidioso vedere qualcuno mangiare così: non per un giudizio nei confronti dell’oggetto, ma semplicemente perché ci vedo rifranta, attraverso il prisma del tempo, me stessa, in un bel periodo tumultuosamente torbido e travagliato della mia esistenza. E l’agonia riaffiora immediatamente. È un attimo: al mio cospetto si profila il baratro, con le sue pareti levigate. La lugubre tenebra melliflua, perché celata. Ma presente e sempre vigile. Un’oscurità che ti si incolla addosso come sudicio mastice, sino a diventare tuttuno con te, e rende lo scenario ancora più macabro e spettrale. Un abisso che non sembra avere un fondo. Non c’è presa. Non c’è riscatto. Solo un’avida ossessione divorante. Senza passione. Perché non godi di ciò che introietti con rapacità.

Ed io con il mio cuore palpitante tra le mie mani, ti supplico e chiedo con tutta me stessa, di proteggermi da questo schifo e di illuminare con tutta la tua luce, la tua forza, la tua saggezza ed il tuo calore, i meandri e le profondità di quel gorgo infernale. Affinchè io possa conoscere la redenzione. E possa essere luce. Io lo so che nulla succede per caso. Anche quello che ora mi stai mostrando, e che io, con il tempo, vedo con altri occhi. E che tu sei ovunque. Che io possa sempre essere veicolo ed incarnazione del tuo amore e testimonianza della tua esistenza e presenza. Così sia.

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