SCENEGGIATURE URBANE, Epilogo

Mio malgrado, forse, è giunto il momento di chiudere l’ennesima porta. O forse di fare l’ennesimo vano tentativo. Sei stato uno splendido sogno, in cui ho quantomeno sperato. Una sberlucciante e sfavillante visione onirica. Sospesa. Forse giunta al suo termine. Come le immagini della notte appena trascorsa, che questa mattina sentivo incollate come pece collosa alla mia pelle. Un sogno fatto della tua carne sotto le mie mani, dei tuoi occhi dentro i miei, di tuoi peli e capelli, forse solo peli dato che sei rasato, come testimonianze della tua sosta tra le mie lenzuola. Della tua corporeità statuaria nuda, in tutta la sua umana perfezione, di fronte alla mia meraviglia, incredulità e stupore. 

Non so perché. Non so perché io abbia cercato di sedare quanto, con le parole più semplici e con inconsapevolezza, abbia travolto la mia esistenza. Forse questo incantesimo unilaterale, per essere finalmente spezzato, necessita di essere messo nero su bianco. Quest’alchimia univoca che è capace di privare dell’autocontrollo. Di queste mani la cui stretta è allentata quando compari all’improvviso al mio cospetto e i tuoi occhi mi cercano con la luce dello stupore dei bambini. Uno stupore che manifesta una evidente incapacità di relazionarsi: questione che schiude il sipario sulla chiave che permette sì, di sciogliere quesiti, ma che comunque non gira nella porta che mi permetterebbe di chiudere tutto questo. Forse la magia si dissolverà tra le mie stesse mani, nel momento stesso in cui io ammetterò che tu, sì tu, incarni sì quanto io ho sempre sdegnato, ma contemporaneamente sei anche qualcosa che non ho mai ammesso a nessuno, forse nemmeno a me stessa, ma che forse ho sempre desiderato per altri versi ed aspetti.
Sei un paradosso creativo. E non te ne rendi neanche lontanamente conto. Tutto questo negli occhi di una donna che da un anno spesso, troppo spesso, scruta nella tua direzione. E che dopo un anno è ancora qui a scrivere di te. Dopo un anno di cambiamenti di paradigma dalle profondità abissali.

Dopo un anno in cui mi sono rimessa in gioco non ogni giorno, ma ogni secondo. Dopo un anno in cui ho scavato nelle mie ferite al fine di rigenerarle a pelle nuova. Dopo un anno in cui ho ascoltato i miei demoni, che me ne hanno portati di nuovi e di più subdoli e feroci. Sussurrano o mi urlano in faccia. Riesco a sentire i lapilli della loro bava incandescente scottare la pelle del mio volto. Sento il calore equatoriale, umido, dei loro aliti, incollare le vesti al mio derma e ustionarlo. E nonostante tutto questo, nonostante questa ricostruzione, sento ancora le catene ai polsi, anche se le mia ali hanno acquistato consistenza, corpo e lucidità. 

Ti guardo con gli occhi dell’anima rapiti, con la trascendenza, o l’allucinazione, che fa di te qualcosa di speciale. Una notte di novembre ti scrissi che avremmo molto da imparare l’uno dall’altro. Credimi, quello che non comprendo, non è il fatto che non si possa piacere a qualcuno: fortunatamente il mio narcisismo assume solo sfaccettature paranoidi suggellate dai fatti, e non picchi di delirio lucido. Quello che non mi spiego, mentre tutti quelli attorno a me se lo sono spiegato benissimo marchiandoti semplicemente come “cretino”, è come tu possa non sentirmi muovere nelle tue pliche. Perché così è. Perché una sensazione, un’emozione così forte e così irrazionale, non può non essere ricambiata. Proprio perché della razionalità contempla solo la contingenza, quindi semplicemente le due corporeità. Di conseguenza assolutamente effimere, pur pregne di significato e significante.

Oltretutto. Quello che non capisco, e peggio ancora non mi spiego, cosa per me assolutamente destabilizzante, è come tu non voglia ascoltarti. Non non possa, semplicemente non voglia. Come forzatamente diventi sordo di fronte a ciò che probabilmente ti spaventa. I tuoi occhi che non hanno il coraggio di soffermarsi nei miei per più di una frazione di secondo, smascherano questa tua consapevolezza. Mi chiedo per quanto riuscirai ancora a farlo.

Spero tu possa trovare il coraggio e la forza, ma non quella che hai indossato con plurime morfologie a guisa di protezione, per potere affrontarmi. Sì da porre fine a tutto questo. Perché se così non dovesse essere, in un altro round, la storia nella sua semplice complessità insegna, rischieremmo di essere i reiterati amanti della situazione. Ci sono incastri unti e sospinti dalle flessibili dita del destino. E né io, né te, possiamo farci nulla.

Non mi fotti stella. Io ora, ho smesso di aspettare i cadaveri in riva al fiume: di una vendetta becera e semplicistica di un diniego me ne faccio poco. Preferisco avere la tua carne calda tra le mie mani.
I cadaveri trasportati dalle acque impietose e rigeneratrici del tempo sono morti, talvolta anche così gonfi da essere irriconoscibili.
E quando passano, l’unica cosa che per inerzia smuovono, è la corrente ingestibile che in realtà smuove loro.

Dici di essere un uomo.
Dici di volere fare l’uomo.
E allora, testa di cazzo, nuota e vieni a prendermi.

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