BIANCO E NERO

Sogno di essere in una casa. Spoglia. Scarna. Bianca. Un alloggio di fortuna. Pur di potere stare assieme, io e te.
Sogno che rientri dal lavoro. Un lavoro anche quello di fortuna. Siamo fondamentalmente due poveracci.
Il ricordo più forte è il mio braccio: il sinistro. A parte le mura, non c’è assolutamente nulla in questa casa. Anche il bagno, dove siamo è spoglio. Stretto e lungo. Con piastrelle quadrate bianche. Un lavandino al di sopra del quale è appeso un una sorta di scolapiatti, bianco anch'esso. Della stessa fattura degli stendini di una volta. Ed anche lì, il vuoto.

Guardo il mio braccio sinistro, dicendo alle amiche: ”Guardate come è secca la mia pelle.” Distratte, devo richiamare la loro attenzione alzando la voce: terminano così finalmente questo gineceo ilare. Il mio braccio è desquamato: pelle secchissima con bianche (ancora) chiazze di derma disidratato, sì da risultare soltanto l’ammasso di milioni di puntini bianchi: cellule quasi visibili ad occhio nudo.
Ad osservare bene c’è dell’altro sotto quel candore.
Il mio braccio è lucido lucido ed incredibilmente liscio. E nero. Tra il carbonizzato, la tumefazione e la necrosi. In alcuni punti piccoli brandelli si staccano in fogli organici.
È un braccio nero. Sorrido mentre lo mostro. Non mi fa male. Perché è passato.
Sono felice perché sto bene con queste amiche.
E perché sono R.

Un ragazzo, amico suo, entrando in bagno, afferma qualcosa in merito al fatto che se negli anni sessanta avesse avuto un figlio con me, negli anni settanta sarebbe nato. Non ha molto senso. Ma non importa.

Quel che conta è che io e te, R. non avevamo nulla.
Ma uno aveva l’altro. Ed eravamo, assieme, due anime impastate.

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