LA SPOSA OCCULTA

Cerco nei frangenti dell’epilogo e dell’incriminazione.
Tracce dei filamenti della nostra negata esistenza e della nostra imprudenza.

Di celati, sommessi e furtivi sguardi sospinti al di sopra di un nero velo che cela e nasconde il capo. Sguardi che avvolgono e cingono.

Di sussurri di prefiche in angoli bui di echeggianti e vuote cattedrali gotiche. Sussurri che scivolano e si insinuano.

Di mani che si sfiorano nella costrizione pretestuosa della processione, pretendendo di estendere all’infinito quell’evanescente e memore acausalità sospinta e destata da un’essenza olfattiva. Mani che si ritraggono deste e leste sotto gli occhi inclementi, feroci e viziosi di giudici inquisitori, adornati delle loro vesti scarlatte come drappi tirati a lucido per il processo dei rei.


Di caldi sapori dolciastri e ferrigni come sangue al palato adesi: distillato di confusione di amanti. Laceranti sapori che come marchio a fuoco si incollano a guisa di riconoscimento ed intimo possesso.

Di feromoniche brume che come femminee mani incantevoli e suadenti inducono e conducono alla morale perdizione e dispersione nell’alterità. Brume costrette a dissolversi al sorgere del sole come decadenti ed impotenti vampiri deprivati della loro forza.

Il tempo che è nostro sta giungendo al termine. La fredda pietra sotto i nostri nudi piedi che non possono sporgere oltre la veste, è messaggera di un destino imminente. Un gelo mortale che dalle viscere di questa terra in noi si sta propagando, mentre procediamo tintinnanti tra sibili sommessi e tattili sguardi che esaminano la nostra colpa.

Come bestie rare nel circo con avidità e sdegno osservati, di una curiosità morbosa imbibita e gocciolante che stilla su questo pavimento levigato da mille passi di pellegrini devoti e fedeli, per vedere l’umana decadenza quali terrificanti morfologie può assumere. Nell’ingenuo tentativo di difendersene, sventolando ed ostendando la propria differenza: cercando la conferma di non appartenere a quella stirpe di perversi, allontanandosene nella stessa paura della rifrazione. Nello scrutare tra le nostre membra il segno visibile e riconoscibile del peccato, per poterlo con una mano additarlo nell’altro e con l’altra seppellirlo nei profondi abissi di sè stessi.

Vessilli purpurei accompagnano il nostro incedere e recano la nostra infamia, cucita con grida mute, ora che è scherno e vergogna negli occhi di tutti. Fioche luci di candelabri sospesi ed instabili sopra le nostre teste, come precaria ora è per noi la possibilità di rimanere adesi alle nostre stesse vite. Al pari di diafani fuochi fatui ci sciolgono e fondono in questa folla osservante.

Avanziamo mesti ed ameni.

Questa è la nostra unica apparizione in pubblico uno al fianco dell’altro, rivestita di una teatralità macabra e meschina. I nostri polsi lacerati e sanguinanti per queste vili catene, suggelli di vere consunte e logorate dal nostro umano ardore, a cui siamo costretti, assurgono ora a nostra metafora. Cilici atavici cingono e consumano le nostre membra, cadenzando il nostro cammino come sparuti e timidi pellegrini, divengono simbolo che costantemente ricorda l’onta in cui ci siamo immersi e battezzati e della quale ci siamo ubriacati. Sigilli sacramentali infranti da servi di simulacri, che riecheggiano tra queste secolari ed indifferenti grigie mura granitiche. Circondano come giganti noncuranti il nostro camminare ora di fronte a questa meschina corte che non saprà perdonare, che non potrà capire l’intreccio impalpabile e denso e che non volgerà il suo sguardo alla clemenza dell’espiazione. Icone orgogliosamente esibite come manifesto di esistenze incorruttibili, deprivate e spogliate del loro significante originario, si stagliano e animano in bagliori riflessi sui frammenti algidi delle nostre carni come funebri ballerine.

Giunti al cospetto dei nostri giudici dalle adornate dita ossute e nodose, avvolti e stratificati in lenti mantelli della pesantezza del tempo, un silenzio liquido scivola e pervade a saturare sino all’anossia questa parentesi di vite apparentemente ignote e sconosciute. Un’afonia soffocante in cui i respiri vengono celati nei petti ma non nei cuori, per cercare di confondersi tra i giusti e tra di essi trovare la salvezza che distingue dai peccatori irredenti ed irriverenti.

Silenti. Con lo sguardo smarrito e costretto incollato al pavimento. Ascoltiamo l’enunciazione dei nostri crimini. Rosari sgranati e graffiati da unghie di fiere.

Il nostro cammino è ora giunto al suo termine: un’insolita dilatazione dettata dall’immanenza dell’esodo e della dipartita. Ciò che è sempre stato celato con dovizia e sofferenza ai molti, ora è sotto gli occhi di tutti. L’arresto di fronte al nostro tribunale interrompe come fendente che recide, decapita e desta dai nostri stessi passi silenziosi. Questa navata che non è mai riuscita a consacrarci, per l’occasione si è fatta varco nel tempo e pausa millenaria.

Nessun grido. Non una mano che nel mezzo di questa distante fiumana si alzi in nostra difesa per placare l’ira. Docile rassegnazione di fronte al trionfo di Thanatos: ora che il cancro è stato smascherato ed esposto nella vana illusione di riportare l’equilibrio e la giustizia.

Abiurare. Scongiurerebbe le nostre colpe mondandole della nostra umanità.

Ora, di fronte a questi cortigiani di sangue di agnelli sacrificali assetati, siamo l’anello mancante delle loro misere esistenze: la nostra decadenza diviene testimonianza di umanità caducea dalla quale vaccinarsi. Vittime e carnefici separati da un sipario che non delimita ma confonde ruoli e costumi. Rappresentiamo dunque ora la loro paura più grande, impossibile da esorcizzare: quella dell’amore illegittimo di un uomo e di una donna costretti, per tutta la durata del viaggio, a celare e mutilare l’esplicabilità del nostro sentire.

Con arsura nel palato e denti serrati, ascoltiamo attoniti l’incontrovertibile esemplare sentenza come narcotica gelida morsa alla nuca che stordisce e paralizza.

Lacerati e fatti a pezzi nello sguarnito silenzio di candidi sepolcri imbiancati. La solitudine e l’incomprensione sono divenute materia tattile: come salme eviscerate e divorate impietosamente da voraci belve che altro non vogliono che nutrirsi ed effigiarsi di questo umano disonore per immunizzarsene omeopaticamente. Come cannibali che in orgie di sangue sbranano e ingurgitano le viscere del nemico catturato per diventare più forti e rendergli omaggio.

E di questo nostro sangue che non può essere versato per non ricadere come piaga epidemica. Impenitenti, siamo viziosa onta che diviene flagello.

Non ci ripieghiamo ora nel ricordo dell’incontro che ci ha reso rei. Non cerchiamo ora lenimento alla sofferenza data dalla negazione e dall’illegittimità. Irrisi, accondiscendiamo ad un destino, che pur avendo scelto un linguaggio spietato, ci ha donato emozioni che hanno radici nelle viscere della terra e di cui noi siamo le invise efflorescenze dall’esalazione conturbante e straziante. Un effluvio che permea ed incolla.

Siamo solamente due illegittimi amanti. Come tanti altri nascosti nelle pliche degli animi che ci cirdondano ed inquisiscono ora. Come tante ombre che pervadono gli angoli tetri di cui questa città é ricca. Macilente anime consunte dalla ricerca del proprio amore negato.

Lo stesso fuoco che ha incendiato, riscaldato e portato luce nelle nostre esistenze, sarà lo strumento prescelto che estinguendo la mia vita, marchierà la nostra ignominia. Cercherà di purificare e cancellare il nostro peccato. E la cenere laverà via la nostra colpa.

Mani adunche, corvine e macilenti, come ami d’acciaio ora si impossessano di quella carnalità che mille e mille volte è stata tua. Si imprimono in membra inerti che lontano da te vengono con inclemenza allontanate e trascinate. Il fruscio della mia veste è una spettrale e funebre melodia: cancella i miei passi lasciando su questo selciato desinenti orme insanguinate. La mia esile figura scivola nell’oblio di cinerei sguardi che si distolgono al mio passaggio. Indietreggiano nel terrore di contrarre questa scarlatta peste che nei miei lineamenti si è inscritta.

Tu, grazie al mio silenzio avrai salva la vita. Io sono un ricordo indotto da un’essenza sospinta dal vento.

Tu, che ora siedi tra i giusti, protetto dalla tua intoccabile veste. Io sono il tuo impronunciabile epiteto ingiurioso.

Tu, che hai camminato al mio fianco, sotto gli occhi di tutti, soltanto in questa raccapricciante occasione. Io sono la concubina che sarai costretto a vedere ardere viva e della quale porterai nei secoli su di te traccia, come fardello della tua impotenza e fustigazione per la nostra impudicizia.

Non te ne voglio, ora.

Poco prima di abbandonare quella navata, sede di un processo pungente ed amaro come fiele, che ha sconsacrato il nostro amore, e dissacrato la tua integrità già compromessa e logorata, cerco i tuoi occhi e le tue mani. Cerco nell’aria ancora il profumo della tua pelle, l’evanescenza che a me restava adesa come pece animica: la stessa che anche tra secoli, a me ti ricondurrà come fendente in mezzo al petto, e che ti renderà immediatamente distinguibile in mezzo a molti.

Che la nostra storia sia dottrina per i giusti e per i rei. A ciascuno la personale presunzione ed illusione di appartenere all’una o all’altra parte.

Ti cerco al mio fianco su questo imbandito altare sacrificale.

Ti cerco nelle occhiate voraci e feroci che come scudisci si infliggono su di me.

Ti cerco in questo nostro cammino lastricato di pietre, sangue e fuliggine.

Ti cerco nella croce, ora ridotta a puro simulacro, che luccica di queste fiamme e pende sul tuo petto.

Della tua sposa negata e segreta.

Le cui ceneri ora si spengono nell’abisso impotente del tuo dolore.

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