PREFICHE

Questa notte l’Es ha prelevato lo scettro dalle mie mani con grazia pregiata. Maneggiandolo con destrezza esperta, quindi con esito assolutamente naturale, ha dato cromatismo scarlatto, materialità fluida e origine organica a metamorfosi inconsapevoli sublimate in impazienza ingenerata da stasi feconda.

Assisa al vertice di un edificio. Nono piano. Giorno. Le mie gambe che ciondolano nel vuoto. Per un istante, sola: una frazione infinitesimale di secondo, il tempo necessario per comprendere con onirico istinto dove sono. Ed alla mia sinistra ora c’è un uomo molto vecchio, magro e sorridente. Si siede anche lui. Ha 96 anni. Ogni informazione, in questo frangente, è una verità rivelata ed assimilata come tale. Gli sorrido, a mia volta, mentre continuo a muovere fanciullescamente le gambe che pendono a quest’altezza vertiginosa. Non guardo giù, continuo a guardarmi attorno: solo cielo, cemento e ferro.


Ora devo scendere, tornare a terra. Su quel trono duro e ruvido, illuminato da un sole non ancora in potenza, siamo arrivati, sia io che l’uomo, allo stesso modo. Forse semplicemente un preludio ad un avvenire che ha da compiersi secondo passaggi, tappe e riti predisposti come cerimoniali esistenziali, al fine di ammorbidire una seduta altrimenti poco confortevole, seppur elevata. Scarna, seppur solida. Non sfruttata nella sua potenziale ricchezza, quindi sprecata. Panorama al limite del monocromatico.

Mi giro verso l’uomo, lo guardo e gli dico che io ora scenderò. Mi chiede incuriosito, sorridendomi dolcemente, come farò, sottintendendo l’altezza a cui siamo. Non intende segnalarmi un pericolo, ha solo sincero interesse nel capire come intendo muovermi. Sempre sorridendo gli dico: “Così: non è la prima volta che lo faccio”, e con avvezza abilità aracnea affinata tra i sospiri di Chronos e di Morfeo, scendo facendo presa con mani e piedi alle finestre del palazzo. Mi dice che anche lui farà la stessa cosa. In breve tocco il suolo. In breve è notte fonda. Lui aspetta che io mi discosti di poco dalle fondamenta, giusto qualche metro. Dando le spalle all’edificio. Giusto lo spazio necessario per udirlo schiantarsi sull’asfalto di un salto che lo vede accolto dalla durezza del rientro incauto: di una caduta dall’impatto devastante, trasformato sonoramente prima in un fischio e poi in un tonfo commisto a schiocco di ossa frante. Accompagnato in simultanea da grida di donne. Mentre voltandomi già sofferente per l’intuizione di quanto accaduto, incidevo indelebilmente in connessioni sinaptiche organizzate e strutturate per il fervido ricordo, quanto manifesto in sonore onde ed ora materica corpuscolarità. Sapeva non sarebbe mai sceso come me: a dispetto della sua richiesta che era puro artificio per permettermi di percorrere il mio cammino.

Ho un sussulto: fino a pochi secondi prima era al mio fianco. Sono stata l’ultima con cui ha parlato.

Guardo ora quel nero asfalto che accoglie quel che resta del suo corpo, delle sue membra: è già poltiglia liquefatta all’interno di derma sintetico dalla consistenza plastica. Sacchetti. Nel tempo irrisorio che il volo ha richiesto, ha trasmutato la sua forma e dissolto e sciolto la sua stessa sostanza, trasfondendola in umana linfa vitale. Sangue. Non ho mai visto così tanto sangue nelle mie percezioni oniriche. Quanto sangue sgorga ora copioso da quel che resta della sublimazione di quell’uomo: la sua essenza è un fiume in piena di sangue, con strazio sparso a piene mani dalle decine di donne che animano quel marciapiede. Palcoscenico ed al contempo teatro di una viscerale disperazione vissuta e sentita da tutte quelle femminee figure di scuro vestite e con il capo coperto. Prefiche postmoderne che da quella sorgente infinita di sangue attingono e che quel sangue spargono, guardandomi negli occhi, con movimenti di mani su quell’asfalto, che ora altro non è che un rorido e liquido manto scarlatto.

Strazianti le loro grida come preghiere disperate ed urla di profondo dolore che divengono espressione e manifestazione di atavico cordoglio emerso e straripato con impeto e prepotenza.

Io non riesco a sopportare tale arena di tristezza. La visione di questo fiume di sangue che non accenna ad arrestarsi ora che è straripato, e del patimento intenso e acuto che ha generato, mi stordisce al punto che mi viene da vomitare. Tre conati.

Non riesco a reggere quanto sto vedendo e sentendo. È veramente troppo forte per me.

Mi incammino, dirigendomi alla sinistra del punto dello schianto, proseguendo con un’amica sottobraccio. Alla mia sinistra a sua volta. Su quella strada lastricata di strazio e disperazione, di umana passione e sofferenza, camminiamo. Incedendo e rifuggendo a sì tale contrizione e tormento. Negando assenso all’offerta di una passante di soluzioni chimiche per i miei urti. Non voglio sedativi. Voglio solo allontanarmi ed abbandonare tutto questo male.

Cammino, con ancora in corpo spasmi di contrazioni di rigetto.

Con l’anima tumefatta ci allontaniamo.

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