INCUBI DI PECE

Dei miei demoni più profondi e viscerici. Dei miei turbamenti, di tutti gli scheletri che lasciano sporgere una falange dalle ante degli armadi. Celando nell’oscurità di pliche arcaiche il resto delle loro fattezze. Delle mie ossessioni, ferite arse dalla veloce copiosità dei fiumi di sangue versati. Dei miei respiri anossici soffocati, di palmi sulla bocca e dita pressanti contro il setto, e ferree strette di molteplici mani immobilizzanti attorno ai miei polsi. Notti inquiete di voci, di pesantezza di corpi e di tocchi. Di cimiteri decromatizzati alla luce plumbea e opprimente di un anonimo pomeriggio deprivato della sua scansione temporale, in cui camminavo a fatica, affondando i miei piedi in percorsi tra pietrisco e rallentando il passo in un’unica pozza di sangue color ciliegia profonda una
spanna. Di brandelli della mia stessa carne, estirpati con dolore attraverso le mie stesse mani, e posati su un piatto di porcellana immacolata. Color cartillagine bagnato da gocce di sangue. Osservavo il solco lasciato dall’espianto di quel dolore profondo. Che con estrema avversione e riluttanza rimettevo in bocca. Rendendomi conto della sterilità dell’umano istinto predetta, quel cilindretto di carne rifiutavo. Scrutando il buco nero lasciavo fluire il dolore e rimestare la sofferenza. Un’altra fessura, quella che presidiava la mia sterilizzazione anoressica. Una fenditura che si diramava al centro di un magro ventre mummifico: scuro, secco, cuoioso. Canale di comunicazione, esattamente a metà percorso tra nutrimento materno uterino e manifesto femmineo. Si apriva sugli abissi dei visceri privati della loro connotazione e doviziosamente estratti. Pazientemente seduta sul cesso, ho tirato fuori tutto: preso il capo, simile in tutto e per tutto ad una testa di ananas, ho estratto ripetutamente connotazioni sensoriali morfologicamente filiformi e di colorismo opalescente. Come fuscelli a ciocche li estraevo dal mio corpo: la loro infiorescenza, simile ad un occhio violaceo, spuntava da un’estremità. Con un lavoro di lucido perfezionismo delirante ho estratto tutto sino allo sfinimento. Finito il puntiglioso mestiere, esausta, guardavo il risultato di tale svuotamento. Sapevo che il foro nero che troneggiava nel mezzo sarebbe rimasto aperto, possibile veicolo di infezioni. E che per tale magrezza sarei stata ripresa: vuota, anche io di ogni altro ulteriore pensiero in merito. E a mia volta inquietata da tale operazione di espropriazione.

Tardo pomeriggio in giro dal sola per una città riconosciuta inconsciamente ed immediatamente come turca. Attorno a me l’anarchia tipica dei suk di taluni paesi. Ferma per una sosta per pisciare mi accorgo di avere le mestruazioni. Rientro in albergo con sosta obbligatoria in reception; un bancone bianchissimo mi attende: immacolato, morbido, rivestito di pelle bianca. Attendo le chiavi della mia stanza, probabilmente ad esso appoggiata. Mi scosto e vedo che non è più così immacolato. Vedo delle impronte di mano. Insanguinate. Non capisco. Continuo ad osservare ciò che prima era algido ed osservo quelle orme che non comprendo da dove arrivino. Sono mani e strisciate di sangue. Mi ritrovo altrove, riflessa nel vetro di una libreria. E capisco che quel sangue è mio, quando vedendomi rifranta scopro di essere una maschera scarlatta. Mi volto, dando le spalle al riverbero: scorgo la mia schiena completamente a brandelli. La pelle è lacerata al punto che alcuni frammenti si stanno staccando. Sento male da un orecchio. Il sinistro. Perché dentro, zuppo di sangue anch’esso, c’è un biglietto. Dove mi viene intimato di pensare ai fatti miei. Una donna mi cura e mi racconta quello che è successo: sono stata sedata e probabilmente fatta quasi a pezzi. Incontro i miei carnefici, successivamente, che devono portare a termine quanto lasciato in sospeso. Questa volta con delle pietre con le quali hanno intenzione di fracassarmi il cranio. Riesco a fuggire. Sotto una pioggia incessante di un pomeriggio senza senso, privato anch’esso della sua temporalità e di una connotazione tonale, corro tra le stradine di un mercato. Nessuno è mai venuto a cercarmi per sapere che fine avessi fatto. Donne che mi informano che la mia bambina è morta. Lame che sento scivolare nella carne, affondare nei miei visceri in un duello ad armi impari in una mattina al sorgere del sole. L’avversario che sorride, di una contesa che lo vedrà vincitore. Mi schernisce. Sente la mia paura ed il mio difetto. Un uomo che si offre di scortarmi, avvisandomi però, che la prossima volta avrei dovuto cavarmela da sola. Il mio corpo appeso, coperto di tagli e grondante sangue. Nessuno che comprenda la situazione e che possa aiutarmi. Un correre notturno in un viale alberato. I miei passi sullo sterrato. La mia corsa per preservare l’esistenza. Passi alteri dietro di me. Qualcosa puntato contro la nuca. E l’esplosione. Una notte passata a fuggire da chi con fucili minacciava la nostra esistenza: ho dovuto fingere di stare dormendo, tormentata da una coscienza che mi tirava i lembi degli abiti, informandomi che attorno a me stava per avvenire una massacro. Quindi la fuga in un vicolo cieco: un bagno con una finestra troppo piccola per scappare. E quel fucile puntato contro: mi dispiace averti detto di sparare, ho letto lo sgomento nei tuoi occhi, che a questo non sei abituata: l’indecisione sul fare fuoco o meno. Era l’unico modo per sopravvivere. Hai premuto il grilletto, ed io, con brandelli di cervello e sangue del nemico ancora caldi, che mi sono schizzati direttamente in bocca, per lenire il tuo turbamento, ho cercato di calmare la sofferenza e lo sgomento che vedevo dipinti sul tuo volto: ti ho detto che avevi fatto la cosa giusta. Eravamo vive. Di tutte le volte che minacciata ho dovuto rispondere con violenza alla violenza: era l’unico linguaggio comprensibile e che mi avrebbe permesso di restare qui. Di finte seduzioni con la complicità della generatrice per infilare lame nella giugulare di chi stava cercando, con l’inganno, di fare del male al padre. Di schiocchi di teste infrante su pavimenti. Di quando ho visto, impotente, mia sorella deflagrare in una fiammata all’interno di una macchina, per uno schianto contro un camion nel deserto. Poco dopo averla lasciata andare sorridente come sempre.
Di tutte le volte che al mio fianco non c’era nessuno ed ho dovuto vedermela da sola con il nemico.
Di tutte le volte che non ce l’ho fatta. Delle poche volte in cui il sangue versato non era il mio.
E di tutte le volte in cui mi sono svegliata con un urlo soffocato in gola.
E delle volte invece in cui qualcuno l’urlo l’ha sentito e mi ha aiutato.
Forse, talvolta, basta chiedere.

A tutti i guerrieri che mi sono sempre stati a fianco, e che ho imparato a riconoscere con il tempo e con i visceri. Grazie a tutti voi per la forza, la passione, l’amore, il cammino condivisi. La mia libagione, la mia vittoria, ed il mio regno, saranno anche vostri.

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